Il generale inverno
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«Cosa ha detto?». «Ha detto: scentirete che sciapore!». «Che è? Turco?». «No! Sciculo». «Culo che?», «Sci-cu-lo. Scisciliano».
La dotta conversazione avveniva tra Piero Bertuzzi, detto Malalingua, Tano, soprannominato Le Turc, proprietario dell’albergo, e Gaspare di Treviglio, manovale dei Serassi costruttori d’organo. I tre, vagamente alticci, erano comodamente seduti ad un tavolaccio della locanda la “Vecchia posta” che da un ventennio era stata rinominata, vox populi, la taverna “Le Tre T”.
La locanda era sita di fronte al campo dei Gelsi sulla strada per Milano. Si entrava da una piccola porta e il locale, non fosse stato per una specie di saracinesca, che Tano teneva spalancata dalla mattina alla sera, era completamente allo scuro. La stagione era calda. I tre avevano scelto un tavolo lontano dal finestrone e nascosto nell’ombra, così che potevano adocchiare ciò che accadeva fuori senza essere veduti. L’arredamento era quello tipico delle taverne: il pavimento in terra battuta ricoperto di paglia e segatura, una fila di tavolacci di legno tutti incisi con scritte del tipo “La Felicita è una gran z… (omissis)”, “Carlo cornuto”, “Abbasso l’imperatore”, “Evviva la f… (omissis)”, “Il marchese è un ladro”, “Io amo Cecilia”, “Tano re”; le relative panche sghembe, un bancone da mescita diroccato e l’immancabile focolare sempre acceso. Il camino non tirava bene e quando il vento soffiava da oriente il fumo, anziché uscire dal comignolo, invadeva la sala affumicando i clienti. E quando ciò accadeva si era sicuri che la pioggia prima di due giorni sarebbe arrivata.
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